Ordinanza n. 56/2003

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ORDINANZA N.56

 

ANNO 2003

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

 

- Riccardo CHIEPPA,  Presidente

 

- Gustavo ZAGREBELSKY

 

- Valerio ONIDA                       

 

- Carlo MEZZANOTTE              

 

- Fernanda CONTRI                 

 

- Guido NEPPI MODONA       

 

- Piero Alberto CAPOTOSTI     

 

- Annibale MARINI                   

 

- Franco BILE                                      

 

- Giovanni Maria FLICK           

 

- Francesco AMIRANTE           

 

- Ugo DE SIERVO                   

 

- Romano VACCARELLA       

 

- Paolo MADDALENA            

 

- Alfio FINOCCHIARO           

 

ha pronunciato la seguente

 

ORDINANZA

 

    nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 414, comma 1, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 25 maggio 1999 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torre Annunziata nel procedimento penale a carico di D.S. ed altri, iscritta al n. 288 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell'anno 2002.

 

    Udito nella camera di consiglio del 15 gennaio 2003 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

 

    Ritenuto che con ordinanza emessa il 25 maggio 1999, pervenuta alla Corte il 27 maggio 2002, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torre Annunziata ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, 24, primo comma, e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 414, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui, secondo l'interpretazione della Corte di cassazione, configura il provvedimento di autorizzazione alla riapertura delle indagini come condizione di procedibilità, senza prevedere un termine finale per la rimozione dell'impedimento all'esercizio dell'azione penale;

 

    che il giudice a quo premette, in punto di fatto, che nell'anno 1992 era stato avviato un procedimento penale nei confronti di una pluralità di persone per il reato di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di reati contro il patrimonio;

 

    che, a conclusione delle indagini, il pubblico ministero aveva formulato richiesta di archiviazione, accolta dal giudice per le indagini preliminari con decreto del 27 giugno 1994;

 

    che, sopravvenute ulteriori acquisizioni investigative, il pubblico ministero aveva iniziato un nuovo procedimento penale per i medesimi fatti, senza chiedere preventivamente al giudice l'autorizzazione alla riapertura delle indagini;

 

    che nell'udienza preliminare, fissata a seguito della richiesta di rinvio a giudizio degli imputati, la difesa aveva quindi eccepito l'inosservanza della disposizione di cui all'art. 414, comma 1, in relazione agli artt. 191, comma 1, e 407, comma 3, cod. proc. pen.;

 

    che al riguardo, il rimettente rileva come, di seguito alla sentenza di questa Corte n. 27 del 1995, che aveva riconosciuto al provvedimento di archiviazione un'efficacia limitatamente preclusiva, la giurisprudenza di legittimità — superando l'iniziale orientamento interpretativo, secondo cui la mancanza dell'autorizzazione alla riapertura delle indagini avrebbe comportato la sola inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti — abbia qualificato l'autorizzazione stessa come condizione di procedibilità atipica, collegandola al disposto dell'art. 345, comma 2, cod. proc. pen.;

 

    che ad avviso del giudice a quo, peraltro, in un sistema che ha come regola l'obbligatorietà dell'azione penale, le condizioni di procedibilità, quali ostacoli al relativo esercizio, dovrebbero essere tutte necessariamente «tipizzate e codificate»;

 

    che, in tale prospettiva, il citato art. 345, comma 2, cod. proc. pen. — che estende la previsione del comma 1 dello stesso articolo (in tema di riproponibilità dell'azione penale ove sopravvenga una condizione di procedibilità originariamente mancante) anche alle condizioni di procedibilità diverse dalla querela, istanza, richiesta o autorizzazione a procedere — dovrebbe ritenersi in realtà riferito, anche alla luce dei lavori preparatori e di argomenti di interpretazione storica, alle sole condizioni di procedibilità tassativamente previste dalla legislazione speciale vigente all'epoca del varo del nuovo codice di rito (quale, ad esempio, la conciliazione amministrativa in materia di contrabbando contemplata dal d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43), oggi peraltro venute meno;

 

    che le condizioni di procedibilità «tipizzate», cui ha riguardo il comma 1 dell'art. 345 cod. proc. pen., risulterebbero d'altro canto soggette ad un regime comune, caratterizzato, per un verso, dalla previsione di un termine finale, spirato il quale cessa la situazione di incertezza circa l'esperibilità dell'azione penale; e, per un altro verso, dalla regola processuale per cui, in mancanza di una condizione di procedibilità che può ancora sopravvenire, possono compiersi atti urgenti finalizzati all'acquisizione di elementi probatori, la cui utilizzabilità non è contestabile (art. 346 cod. proc. pen.);

 

    che, collegando il disposto dell'art. 414, comma 1, a quello dell'art. 345, comma 2, cod. proc. pen., la Corte di cassazione avrebbe per contro creato, in via interpretativa, una nuova condizione di procedibilità, non «tipicizzata» e priva delle caratteristiche sopra indicate, non essendo previsto alcun termine entro il quale il pubblico ministero debba chiedere la riapertura delle indagini a pena di improcedibilità dell'azione penale, con i correlati riflessi sull'utilizzabilità degli atti di indagine compiuti medio tempore al fine di assicurare le fonti di prova;

 

    che, in simile cornice interpretativa, la norma impugnata si porrebbe quindi in contrasto sia con il principio di obbligatorietà dell'azione penale, di cui all'art. 112 Cost., risultando detta azione «fortemente imbrigliata da un'insicurezza e da una posticcia non indicazione di un termine»; sia con l'art. 3, primo comma, Cost., per la sperequazione di trattamento rispetto alla «conformazione di sistema» delle altre condizioni di procedibilità; sia, infine, con il principio dell'uguaglianza di fatto, sotteso alla previsione del secondo comma dello stesso art. 3 Cost.;

 

    che il giudice a quo chiede, pertanto, conclusivamente a questa Corte «un intervento chiarificatore», che «sancisca in modo risolutivo la natura … dell'autorizzazione alla riapertura delle indagini preliminari … e la sua compatibilità con il sistema processuale»; instando, altresì, affinché la Corte stessa — nel caso di conferma dell'opzione interpretativa della giurisprudenza di legittimità — indichi un termine preciso, decorrente dal momento in cui si è verificato il «fatto nuovo» ed eventualmente omologo a quello previsto per le altre condizioni di procedibilità, entro il quale il pubblico ministero può proporre la richiesta di riapertura.

 

    Considerato che il giudice rimettente dubita della legittimità costituzionale dell'art. 414, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui, secondo l'interpretazione adottata dalla Corte di cassazione, configura il provvedimento di autorizzazione alla riapertura delle indagini come condizione di procedibilità: soluzione, questa, che porrebbe la norma impugnata in contrasto con plurimi parametri costituzionali, in mancanza della previsione di un termine finale per la presentazione della relativa richiesta da parte del pubblico ministero;

 

    che — a prescindere dal rilievo che il rimettente mostra di non condividere affatto la soluzione interpretativa sottoposta a scrutinio di costituzionalità, tanto da farla oggetto di diffuse e insistite notazioni critiche, evidenziando, così, che detto scrutinio è stato richiesto essenzialmente al fine, ad esso estraneo, di conseguire un avallo (o, come dice la stessa ordinanza di rimessione, un «intervento chiarificatore») sul piano interpretativo (cfr., ex plurimis, ordinanze n. 199, n. 233 e n. 351 del 2001) — va osservato che il quesito di costituzionalità in esame risulta comunque privo di rilevanza nel giudizio a quo;

 

    che il rimettente si trova infatti investito, quale giudice dell'udienza preliminare, di una richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero in assenza del prescritto provvedimento di autorizzazione alla riapertura delle indagini;

 

    che lo specifico profilo sul quale si incentrano le censure di costituzionalità — vale a dire l'omessa previsione di un termine entro il quale la riapertura può essere utilmente richiesta — non incide dunque in alcun modo sulla decisione che il giudice a quo è chiamato ad adottare: l'ipotetica addizione del suddetto termine non muterebbe, difatti, l'esito del giudizio, che resterebbe comunque, nella prospettiva interpretativa censurata, la declaratoria di improcedibilità dell'azione penale;

 

    che la questione va dichiarata, pertanto, manifestamente inammissibile.

 

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

 

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 414, comma 1, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, 24, primo comma, e 112 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torre Annunziata con l'ordinanza in epigrafe.

 

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 febbraio 2003.

 

    F.to:

 

    Riccardo CHIEPPA, Presidente

 

    Giovanni Maria FLICK, Redattore

 

    Depositata in Cancelleria il 28 febbraio 2003.